‘Non sono io, bambina’: Bob c’aveva avvisato già

E insomma, Bob Dylan ha tirato pacco: il 10 dicembre c’ha da fà, raga, mica è uno scansafatiche perdigiorno come noi, o come Baricco* che s’inventa scuole di scrittura creativa per impegnare il suo tempo e guadagnare due spiccioli.

No, lui aveva già l’agenda occupata per quel giorno, dai, mica può venir meno agli altri impegni che ha preso solo per ritirare un  Nobel, suvvia.

Una piccola premessa, essenziale prima di continuare a leggere questo post: amo Bob Dylan, l’ho sempre amato e forse, dopo la sòla tirata agli accademici del Nobel, lo amerò ancora di più. Sì, lo amo perché è un grande artista, certo, ovvio, lo adoro perché alcune sue canzoni mi fanno commuovere fino alle lacrime (se I want you vi lascia indifferenti, ad esempio, o non avete un cuore o non siete mai stati innamorati e in ogni caso mi spiace per voi) ma soprattutto l’ho sempre amato perché è uno stronzo.

Potrei sviscerare qui un elenco infinito e intelligente delle canzoni che l’hanno reso una divinità musicale; potrei analizzarne i testi e mostrarvi il suo talento. Potrei, ma no, non lo farò, andate altrove, il web è pieno di post ed articoli sulla genialità, l’impegno civile di Bob e bla bla bla.

Ma questo blog si fonda sulla superficialità della mie adorabili opinioni (adorabili come la personalità di Dylan: un caso? Non credo) quindi mi limiterò a scrivere i motivi per cui, secondo me, il menestrello è uno degli artisti più affascinati nella storia della musica.

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Bob nella sua tipica espressione simpatica da ‘Io sò io e voi non siete un cazzo

Bob Dylan è l’ultima vera rock star vivente

I social network hanno demitizzato tutte le stars. Senza trucco, senza inganno e persino senza censure (quando i social media manager sono in vacanza o lasciano, malauguratamente, l’account aperto), ormai conosciamo l’intimità dei personaggi famosi, diventati all’improvviso esseri umani come noi.

Niente, non c’è più un alone di mistero ad avvolgerli.

Il caro Bob non ha invece mai deluso, mai.

Ha un account Instagram?

No cari, no.

Ma soprattutto: i divi, oggi, cercano in ogni modo di rendersi simpatici. Fanno grandi sorrisi, rilasciano interviste dove affermano d’amare la normalità, la quotidianità e s’affannano nel risultare cortesi.

Bob no, Bob se ne fotte di risultare simpatico.

Ha per caso duettato con Ligabue * per vendere più dischi e accalappiare quella fettaccia di vasto, vastissimo, pubblico ignorante che l’ascolta?

No, amici, no. Non l’ha fatto.

*Ogni riferimento a Francesco De Gregori è puramente casuale.

Ha iniziato a salutare il pubblico durante i concerti? A suonare dal vivo una canzone esattamente come l’ha incisa sul disco, in modo che possiate riconoscere alle prime note il brano?

Ancora una volta: no.

 

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Con i Ray Ban Wayfare era più figo di chiunque li abbia mai indossati (cioè di tutti, in sostanza)

Continua a vestirsi come 40 anni fa e riesce a non apparire ridicolo.

Sapete perché? Perché anche da giovane non ha mai indossato giacche con lustrini. È coerente con se stesso anche in questo.

Cosa? È un cantautore folk e non un il frontman di una band glam rock?

Vabbè, appunto.

Ok, molti di voi potrebbero ancora controbattere dicendo: “E allora Mick Jagger ? E Bruce Springsteen?”.

Dai raga, fate i seri: l’avete visto il caro Bruce con la sciarpa al collo? È l’immagine di una rockstar o di un uomo che suona in una cover band e ha paura di beccarsi un colpo d’aria?

Meditate gente, meditate.

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Ah, come lo stringe Suze!

Visualizza e non risponde; quando risponde lo fa per comunicarci che è impegnato

E qui c’è il punto fondamentale, è proprio con questo ultimo comportamento che mi ha conquistata definitivamente.

Scusami Bob, non paragonerei mai la tua persona a quei quattro scemi che conosciamo tutti e non rispondono su WhatsApp però, insomma, qualche somiglianza c’è.

“Maleducato e ignorante” l’ha definito un membro dell’Accademia di Svezia, perché non  ha né risposto né ringraziato per diversi giorni dopo l’assegnazione del Nobel e da ieri ho perso il conto di tutti gli “snob, ingrato” che ho letto indirizzati al poro Dylan.

Non è un po’ quello che diciamo tutti quando c’invaghiamo di qualcuno e quel qualcuno ignora i nostri messaggi? Non è così che definiamo chi visualizza e non risponde? Non è così che insultiamo chi ci dà buca perché ha di meglio da fare?

Ecco.

Cari membri dell’Accademia di Svezia, forse avreste dovuto aspettarvi il rifiuto, era ovvio che non sarebbe mai venuto a ritirare il premio: il silenzio di Dylan era stato già abbastanza eloquente. Ma sì, in fondo vi capisco, voi c’avete sperato, come noi speriamo che il sociopatico di turno guarisca e finalmente s’innamori.

Però no, non funziona così, avreste dovuto saperlo che non è lui quello che cerchiamo:

Go melt back into the night, babe,
Everything inside is made of stone.
There’s nothing in here moving
An’ anyway I’m not alone.
You say you’re looking for someone
Who’ll pick you up each time you fall,
To gather flowers constantly
An’ to come each time you call,
A lover for your life an’ nothing more,
But it ain’t me, babe,
No, no, no, it ain’t me, babe,
It ain’t me you’re lookin’ for, babe.

 

*P.s: Alessandro, scherzavo: la scuola Holden è un’ottima scuola. Perdonami Barì, comunque tra rosiconi come noi ci s’intende.

Cari romani, vi meritate Virginia Raggi

“Noi italiani siamo fatti così: rossi, neri…alla fine tutti uguali” sostiene un uomo qualunque in un bar qualunque, prima di essere aggredito dal giovane Nanni Moretti in Ecce Bombo (qui il video).

Ecco, più o meno provo la stessa irritazione, lo stesso sconforto e la stessa rabbia di Michele Apicella ogni volta che mi trovo, malauguratamente, coinvolta in una conversazione con un simpatizzante o votante del Movimento 5 Stelle.

Ieri le l0ro eroine Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno trionfato, quindi oggi i cari tifosi (sì, perché sono coatti peggio degli Ultrà daaamaggica) sono decisamente più fastidiosi del solito (sì, al peggio non v’è mai fine) e stanno appestando qualsiasi social network rivendicando la loro ‘vittoria onesta’ (sì, ho usato ‘reclamare’ come verbo perché sembra che nella gioia di festeggiare la gloria ci sia comunque un tono arrabbiato).

Virginia Raggi partecipa all'iniziativa #piantaladignità, organizzata dall'Usb

Foto Vincenzo Livieri – LaPresse 08-03-2016

No, non analizzerò la sconfitta, nè mi mostrerò stupita dei risultati ottenuti dal movimento 5 Stelle (ne avevo già parlato anni ed anni fa qui) ma vi descriverò, semplicemente, chi ha votato davvero Virginia Raggi a Roma e, in sostanza, perché i romani si meritano un sindaco così pressapochista, qualunquista e populista (oh, se avete un altro aggettivo che termina in ista aggiungetelo pure, purché sia un insulto velato).

Virginia Raggi è una romana media : la sua vittoria è la vittoria di tutti i romani medi, dei romani stufi, arrabbiati, disillusi; dei romani costretti a vivere nella città più bella del mondo (ah, quanto ci piace ripeterlo) ma in cui non funziona niente; nella capitale d’Italia che per anni è stata malgovernata e vittima di scandali finanziari e politici.

“…rossi, neri: alla fine tutti uguali…” vi dirà sempre un romano deluso, raccontandovi gli anni di Alemanno o la breve giunta di Marino. Ed è in questo clima che si sono prontamente inseriti i pantastellati: come iene o avvoltoi in attesa della morte, hanno aspettato che il corpo della vecchia politica giacesse lì privo di vita per gettarsi a copofitto al grido di “CoRAGGIo, onestà, aria nuova” e tutti gli altri slogan che la Casaleggio Associati ha divulgato.

La vittoria di Virginia Raggi è la vittoria dei qualunquisti e dei conformisti travestiti da ribelli; di chi si prende meriti che non sono suoi; di chi crede che nella normalità ci possa essere l’eccezionalità (no, non è così, fatevene una ragione: i mediocri sono mediocri e basta).

Il trionfo della 37enne romana è il trionfo di chi legge Fabio Volo a 30 anni ma non lo ammette (però il Piccolo Principe sì, quello è socialmente accettabile); di chi non ha nemmeno la residenza a Roma e quindi non ha votato ma insomma, sul carro del vincitore c’è posto e quindi ci si sale lo stesso;  di chi fa gli aperitivi al Pigneto perché Monti è troppo da borghesi.

Il successo della Raggi è il successo dei laureati triennali in materie inutili, talmente inutili che sono disoccupati da 10 anni e si lamentano della propria condizione comodamente seduti sul divano di casa; di chi si professa tuttologo e in realtà non è specializzato in niente; di chi scrive aforismi di Pasolini su Facebook ma non ha mai visto un suo film; di chi preferisce Facebook a Twitter perché così ha disposizione più parole con cui ammorbarci urlando i vari “Gomblotto, SvegliAaaA11, Pecore, Scie Chimiche!”.

L’affermazione della Raggi su Giacchetti è l’affermazione di chi chiama giornalai i giornalisti; di chi crede che il Fatto Quotidiano sia l’unico mezzo d’informazione promotore della Verità suprema; di quelli che si professano onesti fino a quando non hanno l’occasione di poter fregare soldi al prossimo; di quelli che difendono a spada tratta le donne però la Boschi no, la Boschi è una cagna.

Gli entusiasti della Raggi sono quelli che non fumano, non bevono e non fanno altro che rinfacciarti quanto sono virtuosi e quanto sei stupido ad intossicarti; sono quelli che  scrivono e si lamentano su Romafaschifo ma continuano ad inzozzare la città con le carte del Kebab e i mozziconi di sigarette (perché in realtà fumano, fumano eccome).

La gloria della Raggi è la gloria dei fuoricorso da 10 anni; degli artisti bohemien a spese di papà; dei rivoluzionari con il bancomat prepagato dei genitori; di chi si vanta di aver viaggiato in lungo ed in largo per il mondo e di possedere già una casa, sempre perché il reddito familiare lo permette.

La conquista di Roma da parte della Raggi è la conquista di tutti i rivoluzionari da tastiera; di chi difende la libertà di stampa e di satira, di chi jesuischarlie però se Vauro disegna una vignetta sulla morte di Casaleggio allora no, allora lui è indifendibile ed è solo un cinico insensibile.

Insomma, la vittoria di Virginia Raggi è la vittoria di tutti quelli che non riescono a fare autocritica; di quelli che non hanno senso dell’umorismo; di quelli che si prendono troppo sul serio e che non sono affatto auto ironici: ma in fondo, noialtri, che c’abbiamo poi da ridere?

Niente.

Proprio un bel niente

E allora buon lavoro Virginia, siete la maggioranza, avete vinto: mille di queste lettere.

Io rimarrò comunque sempre d’accordo con una minoranza di persone. E me ne vanto.

 

 

 

 

 

Gomorra: il lato oscuro che tanto ci piace

Ho un nuovo metro di giudizio per selezionare le compagnie (perché si sa, non sono mai abbastanza): se non apprezzi Gomorra la serie mi spiace, ma non possiamo essere amici.

Anzi, aggiungo che se non ti è piaciuto il finale di stagione trasmesso ieri bhé, allora dovresti starmi proprio a debita distanza.

Gomorra la Serie è un capolavoro tutto italiano di cui andare fieri, punto e basta.

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Avete presente House of Cards o True Detective?

La serie prodotta da Sky Atlantic, Cattleya e Fandango non ha nulla da invidiare a queste americane perché possiede tutti gli ingredienti giusti per essere una delle migliori produzioni al mondo.

Dall’ideazione (Roberto Saviano, Leonardo Fasoli, Stefano Bises, Giovanni Bianconi, Ludovica Rampoldi); alla regia (Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini,Claudio Giovannesi); alla colonna sonora (le incursioni di canzoni neomelodiche e le musiche dei Mokadelic sono perfette); alla fotografia (Paolo Carnera, Michele D’Attanasio): Gomorra è un mix eccezionale, ha uno stile inconfondibile ed è un prodotto made in Italy che ci rende -finalmente- orgogliosi, dopo anni di Don Matteo e robaccia simile.

Ma tra tutti questi ingredienti tecnici d’eccellenza, quello che spicca di più -e probabilmente, quello che ha decretato il successo internazionale- è l’ottima riuscita dei personaggi con storie e caratteri tutt’altro che statici, interpretati da attori talentuosi. I protagonisti della serie sono perfetti antieroi (ne parlavo qui qualche tempo fa), spietati e cinici, che ci trascinano nell’abisso più nero dell’animo umano e -diciamo la verità- un po’ ci fanno pentire di fare il tifo per loro.

L’eccezionalità di Gomorra sta anche in questo: come ci si può affezionare a dei criminali incalliti? Certo, non sono gli unici antieroi delle serie tv (Frank Underwood anche non dimostra molta umanità, eh), ma in loro il lato oscuro non è nascosto dietro nessuna finta facciata: è palese e sbandierato con orgoglio, nessuno si preoccupa di mostrarsi buono e magnanimo.

Non esiste il bene in Gomorra, non v’è speranza, non c’è pietà, non ci sono eroi, non c’è umanità. Quando qualcuno dei personaggi (come Ciro ad esempio, [SPOILER ALERT] distrutto dopo l’omicidio della figlia) dimostra di avere un minimo di sentimento, immediatamente- o al massimo dopo qualche scena- torna a commettere delitti efferati (SPOILER ALERT : però Ciro, don Pietro no, eddai, noi gli volevamo bene in fondo). Lo sguardo finale di Marco D’Amore prima di premere il grilletto, un’occhiata piena d’odio, di tristezza e di rimpianti vale tutto, è un’opera d’arte assoluta che conferma la bravura (come se ce ne fosse bisogno) di un attore che prima di Gomorra purtroppo non conoscevamo.

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E niente, quindi nemmeno il finale di stagione ha deluso le nostre grandi aspettative.

Sapevamo che qualcuno sarebbe morto, ci aspettavamo che qualcuno sarebbe stato tradito. Ma ancora una volta questa serie è riuscita a stupirci: anche stavolta non ci sono vincitori e vinti, non esistono sconfitti e trionfanti. In Gomorra nessuno è mai vivo, in Gomorra nessuno muore mai davvero perché il marcio, i tradimenti, tutta l’oscurità e il male che regnano non rendono questi personaggi essere umani (un po’ alla Barney, per intenderci). [SPOILER ALERT] Sì, Ciro ha ucciso Pietro: ma è davvero il vincitore? Può dirsi davvero realizzato, adesso?

E GennyBello, ora genitore di Pietro Savastano Junior, si è tirato fuori dai giochi tradendo suo padre? Potrà ricominciare una nuova vita ora?

 

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E le donne?

Anche le donne hanno avuto un ruolo fondamentale in questa seconda stagione.

Certo, nessuna di loro sarà mai la tanto compianta donna Imma. Nessuna la eguaglierà mai, ma don Pietro con la soldatessa/compagna/faccendiera Patrizia pareva aver trovato una degna sostituta (certo, mi sa che l’amore ha portato un po’ di sfiga al Savastano senior). Patrizia, nipote di Malammore, si brucia da sola un tatuaggio, rischia la vita per seminare la banda di Ciro e s’innamora dell’anziano don Pietro (oh, a parer mio questo è davvero l’atto più eroico di tutta la stagione, ma vabbè).

C’è poi Chanel (o Scianel), spietata nella sua tuta di ciniglia, che con il suo karaoke dildo ha vinto l’internet, fumatrice incallita, suocera terribile: unica femmina ad avere una piazza di spaccio e purtroppo unica ad essere arrestata (però forse le è andata meglio di tanti altri).

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Tutte donne con le palle che in quanto a meschinità, sagacia e freddezza non hanno nulla da invidiare agli uomini.

Ma anche loro sono vittime di un gioco che spesso non riescono a reggere.

Marinella ad esempio, nuora di Scianel, vive una vita claustofobica, parla poco ma si ribella e denuncia tutto. Avrebbe voluto (e dovuto) fare lo stesso la moglie di Ciro, Deborah, ma è stata fermata  dallo “stai calma” del maritino premuroso mentre la strangolava.

Però quest’anno c’è stata una special guest d’eccezione, praticamente quasi assente nella scorsa stagione: la Polizia. Un vero e proprio miracolo, in queste puntate le forze dell’ordine (j guardj) hanno fatto almeno un paio di volte il proprio lavoro.

C’è speranza, uagliò.

Come si può riassumere la seconda stagione di Gomorra? E’ praticamente impossibile: ci sarebbe troppo da analizzare, troppi sotterfugi da raccontare, troppi morti da contare: bisogna solo guardare per credere.

 

P.S: non ho nominato volutamente Salvatore Conte perché la ferita che ha lasciato in me non si risanerà mai. La sua evoluzione e la scoperta del suo lato omosessuale è stato il racconto migliore di tutta la stagione, quindi no, non sarei mai stata capace di scriverne.

 

LOVE IS LOVE -E poveri voi omofobi-

 
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Oggi fa un male cane leggere i giornali, stamattina fare una decente rassegna stampa è faticosissimo, il giorno dopo la strage in Florida è un dolore al cuore ogni pagina letta.

Scorro nelle homepage dei principali quotidiani ma non voglio leggere, vorrei far finta che non sia successo davvero, che no, non sono state uccise 50 persone innocenti per…per cosa?

Ma tutto e tutti ne parlano, è impossibile evitarlo.

Omofobia o terrorismo?

E’ davvero questa la domanda che dobbiamo farci?

Nel 2016?

Avrei voluto scrivere uno dei miei post stupidi e forse anche questo lo sarà perché sì, insomma, sono pur sempre una persona frivola.

Ma niente, oggi non riesco.

E non riesco nemmeno a capire se sono più arrabbiata, delusa o triste per ciò che è successo.

Esistono davvero al mondo persone che uccidono loro simili in nome dell’omofobia?

Perché?

Perché lo fanno?

Perché si odia qualcuno che non conosci?

Perché il “diverso” spaventa?

Ma soprattutto, ho una domanda a cui da anni non riesco a dare una risposta: ma di preciso, per gli omofobi, cosa cambia nella vita se un altro/a ama qualcuno dello stesso sesso?

Ho troppi interrogativi che mi ruotano in testa.

E no, nessuno di questi è il dubbio è stato un attacco terroristico o no. Mi spiace, non è questo che m’interessa. Isis o meno, il punto è che sono stati attaccate persone che appartengono ad una minoranza, è questo che mi fa paura. E’ il pregiudizio, è l’odio cieco, è il voler uccidere qualcuno perché ha uno stile di vita differente dal “normale”.

E cos’è “normale”?

Cos’è “diverso”?

Cos’è “strano”?

Cos’è “nella norma”?

Viviamo ancora in un mondo così arretrato che siamo ancora qui a fare i conti con persone che condannano l’omosessualità, che la considerano contro natura, che la giudicano amorale e sbagliata.

Persone che camminano tranquillamente tra noi, con cui scambiamo quattro chiacchiere, con cui dividiamo esperienze: sono una bomba ad orologeria, un agglomerato di odio omofobo pronto a farsi esplodere da un momento all’altro. Ieri è successo in un club gay ad Orlando, domani può succedere (come, purtroppo, è già successo) in una sperduta cittadina del Sud Italia. E non possiamo farci niente.

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A me in fondo spiace un po’ per questi omofobi però, lo ammetto.

Quanto dev’essere triste e grigia la loro esistenza, vissuta con una visione unilaterale della vita, senza possibilità di vedere le mille sfaccettature che il mondo ha da offrirci?

Quanto dev’essere orrendo vivere odiando qualcuno, qualcosa, solo perché non rispecchia i nostri standard, solo perché ci hanno insegnato che è sbagliato essere così, che bisogna odiare tutto ciò che è fuori dalla nostra cultura.

Dite che è paura del diverso?

Dite che è omosessualità latente?

Dite che è ignoranza?

Non so, io dico che, probabilmente, è solo stupidità.

‘L’amore è amore’, sempre e comunque. Mettetevelo in testa.

 

 

Cosa ci ha insegnato Matrimonio a prima vista Italia

E’ quel periodo dell’anno in cui ho finito le serie che dovevo assolutamente terminare (alla fine di Gomorra mancano ancora due puntate però, quindi stay tuned), altre le ho abbandonate (qua l’elenco è, haimè, troppo lungo) e alcune devono ricominciare (Orange is the New Black ad esempio), quindi impegno le mie pause nell’affannata ricerca di qualcosa da guardare. Ma grazie a Sky Online e i suoi programmi/film/serie tv on demand riesco in fretta a trovare ciò che cerco.

Però c’è un però.

Se fossi una persona intelligente, o colta, o istruita, guarderei solo documentari su Sky Arte, chessò uno su Bob Dylan o su François Truffaut, ad esempio. Invece no: preferisco impegnare il mio tempo godendomi ore di programmi leggeri e vagamente trash.

No, davvero: qualcuno mi sa trovare dei motivi validi per preferire i documentari di Sky Arte ad alcune meravigliose trasmissioni spazzatura che ti fanno passare delle ore spensierate?

Inizialmente avevo adocchiato MTV Super Shore, ma diamine, ho ancora una certa credibilità da mantenere e quindi ho scelto di guardare un format che credevo nuovo: Matrimonio a prima vista Italia. In realtà ho poi scoperto che no, non è affatto niente di nuovo ma -come ormai accade molto (troppo?) spesso- è un programma riadattato in Italia (in effetti se è specificato nel titolo mi sarei dovuta fare una domanda) da una trasmissione americana (và che ‘sti americani c’hanno degli autori…).

Il format è presto spiegato: tre coppie di sconosciuti si conoscono solo dinanzi all’altare, dovranno passare un mese della loro vita da legalmente sposati e al termine del periodo decidere se restare con il partner oppure divorziare. Sì sì, sposati davvero. Sì sì, si sono conosciuti proprio sull’altare.

Ovviamente non sono scelti a caso, un trio di esperti -una sessuologa, uno psicologo e un sociologo (se il nome della tua professione non termina con ogo/a non sei nessuno)- li ha selezionati in base alle affinità prima di gettarli nella vita matrimoniale e li ha aiutati durante le crisi affrontate in tutto il percorso.

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Il Trio degli esperti OGO/A (lo psicologo Gerry Grassi, la sessuologa Nada Loffredi e il sociologo Mario Abis)

 

‘Nsomma, vi presento in breve queste tre coppie -televisivamente molto ben assortite, bisogna ammetterlo- e la loro evoluzione all’interno del programma.

Di seguito le schede dei protagonisti e il riassunto delle prime puntate (non ci sarà ancora lo spoiler eh, quello ve lo riservo alla fine).

COPPIA NUMBER ONE: Annalisa & FabrizioImmagine1-720x394 (1)

 

Barese, 27 anni, aspirante attrice lei e  41enne,commerciante lui, già non partono benissimo: Annalisa lo giudica subito brutto e dichiara immediatamente che no, fisicamente non è proprio il suo tipo. Fabrizio, al contrario, sull’altare è ingrifatissimo e felice come una Pasqua. La differenza d’età si vede e lei esprime, durante i festeggiamenti del matrimonio, tutto il suo malcontento al padre. E cosa gli risponde il saggio e pratico  uomo barese? Che al mondo niente è perfetto e che le è andata di culo (per chi ha provenienze geografiche diverse dalle mie, la traduzione è che è stata molto fortunata): si è sposata con un uomo benestante del Nord e potrà trasferirsi e vivere su, cosa c’è da lamentarsi? Il Sud -sempre a dire del papà- è morto, meglio abbandonarlo per campi più fertili. “Daje Annalì che hai svoltato” è il riassunto di tutto.

CAPITE QUANTA MODERNITA’ C’E’ IN QUESTO REALITY?!?

Segue una luna di miele da sogno, in cui i due sono molto attratti sessualmente l’uno dall’altro (raga, non pensate male, Annalisa ha subito solo in ritardo il fascino dell’uomo maturo) e tutto va a gonfie vele fino a quando la coppia non si trasferisce a Milano.

Fabrizio torna a lavoro e Annalisa…bhé oh, Annalisa ha svoltato e non vuole fare nulla. Niente, nada, nisba. Non lavora, non riordina la casa, non cucina, NON SI LAVA (ricorderò per sempre la scena di loro due dinanzi la sessuologa, con Fabrizio che schifato le chiede di lavarsi i capelli e lei che risponde: “ma io sono abituata ad andare dalla parrucchiera”). Certo, Annalisa ci prova eh, ad un certo punto fa un colloquio per un’agenzia di moda, le vengono chiesti 500 euro per il book e lei (con molta grazia e furbizia) li sgancia a Fabrizio.

Loro sono in assoluto la mia coppia preferita.

Lui la odia di un odio cieco, è palese, la trova disgustosa e repellente; ma lei vuole a tutti i costi stare a Milano comodamente a spese del suo maritino piovuto dal cielo.

COPPIA NUMBER TWO: Lara & Marco

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Entrambi quasi 40enni, impiegata lei e rappresentante lui, Lara e Marco partecipano al programma convintissimi e carichi. Ma no,a quanto pare nemmeno per loro si prospetta una grandissima riuscita: a prima vista a Lara Marco non piace e lui, invece, la trova passabile. Se lo scopo dell’esperimento era dimostrare che per i maschi qualsiasi donna “preda facile” va bene, allora il test è perfettamente riuscito.

Già durante il matrimonio Lara si lamenta di non essere al centro dell’attenzione di suo marito e in effetti Marco non sembra proprio preso dalla donna, anzi. Segue alla cerimonia una luna di miele tesa e piena di litigi.

Al rientro in Italia i due si trasferiscono a casa di lei e tutto sembra andare per il meglio: improvvisamente a Lara piace anche fisicamente il suo compagno (gnocco, figo, bono, sono gli aggettivi che ripete più e più volte) ma l’orgoglio di Marco l’ha ormai allontanato. Alti e bassi caratterizzano l’intera vita di coppia e a nulla valgono le cene fuori, i lanci col paracadute e i vari bla bla bla. Da quello che mi pare d’aver capito questi due non hanno nemmeno consumato (ebbene sì, lo ammetto, mandavo avanti sbadigliando le loro sequenze).

Niente raga, qua la noia regnava sovrana e ho fatto una fatica enorme a seguirli e scriverne.

COPPIA NUMBER THREE: Alessandra & Andrea

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Tanto bellini, tanto carini, tanto giusti, direttamente da Uomini&Donne la coppia dei cccciovani Alessandra (commessa 31enne di Brescia) e Andrea (avvocato 30enne romano).

Si piacciono molto e subito. Grandi sorrisi, abbracci, baci i due neo sposini sembrano una di quelle coppie super innamorate e felici. Ma ai più attenti di noi non è sfuggita l’espressione terrorizzata di Andrea prima, durante e dopo la cerimonia e non ci siamo fatti subito ingannare come voialtri romantici cronici. Dai, si è visto dal primo momento: Andrea avrebbe voluto darsela a gambe levale da subito e correre via, lontano, veloce come il vento.

Anche durante la luna di miele i due ci regalano un’estern…ah no, scusate, ho sbagliato programma, dicevo ci regalano immagini da teneroni innamorati. Ma anche con loro iniziano le prime crisi: Alessandra s’accorge che il suo sposo non è proprio così preso. Lei vorrebbe stare tutto il giorno ancorata come una cozza sullo scoglio ma lui vuole respirare (e c’ha pure ragione, porello, mancava l’aria anche a me mentre li guardavo così avvinghiati).

Ritornano in Italia e la bella Alessandra si trasferisce da lui a Roma. Andrea però era evidentemente troppo abituato ai suoi spazi da single, trova opprimente il fatto che lei non lavori e non abbia amici nella Capitale, sente addosso troppe responsabilità e come soluzione optano per un trasloco di Alessandra in una nuova casa.

Ottima soluzione Andrea, bravo, così si fa.

Questa coppia mi ha resa claustrofobica, duole dirlo ma mi sono immedesimata più in Andrea e tutti i pianti della sua sposa avrebbero irritato anche Papa Francesco. Sì, ok, lei ha trovato un nuovo lavoro, si è trasferita in una città completamente nuova, ha dimostrato d’avere le palle ma niente, la troppa emotività alla lunga stanca.

Spoiler alert

Niente, i gusti son gusti eh, per carità. Molti tra voi troveranno tutto questo un’offesa all’intelligenza, grideranno all’ennesimo programma demenziale che plagia e rincretinisce le menti. Però vi prego di non giudicare Matrimonio a prima vista un format simile ad altri tipo Uomini&Donne perché no, non lo è. Non è un format originale (come ho già scritto) però bisogna riconoscere che c’è un discreto lavoro autoriale a monte: molte delle crisi attraversate, la maggior parte dei gesti dei protagonisti e gli stessi personaggi sembravano frutto di un discreto impegno di scrittura (ottime le evoluzioni emotive e caratteriali degli sposi). Sì, spesso il programma risultava noioso e lento: ma la vita tra marito e moglie non lo è? Una coppia vive sempre dei momenti divertenti e speciali, campa solo di esterne o un rapporto attraversa lunghe fasi di noia? Ecco, in questo il format è stato quanto più di vicino ad un reality c’è in giro oggi in televisione.

E’ ovvio che i protagonisti sono solo dei campioni di popolazione  e non bisogna generalizzare, però come docureality  Matrimonio a prima vista rispecchia davvero uno spicchio di realtà non sempre rose e fiori con cui ci scontriamo tutti i giorni, che non è la “realtà” urlata dei tronisti e delle corteggiatrici. Il programma ha un obiettivo diverso, qui c’è l’intenzione di voler costruire un rapporto vero, di formare una famiglia, non ci sono solo cuscini a forma di cuori con fotografie stampate.

Però un fondo di verità e di morale si può ricavare anche da format come questo.

E sapete perché?

No, non lo saprete mai se non vi spoilero il finale o se non avete visto la nona puntata.

Orbene, alla fine tutti e tre gli uomini hanno lasciato le mogli e tutt’e tre le donne avrebbero preferito restare con il marito.

Cosa c’insegna questo? Una grande verità che no, non è quella che gli uomini sono tutti stronzi e non vogliono impegnarsi. Cioè sì, il fatto che non vogliano impegnarsi è vero, però prendere questa come verità assoluta è un po’ da superficiali. Lungi da me fare la morale o ergermi a paladina della giustizia e cercherò d’essere più obiettiva possibile. Ragazze, prendiamoci le nostre responsabilità: in ognuna di noi vive una parte di queste tre donne, così come in ogni uomo vive una parte di questi tre esseri maschili.

E’ da maschilisti pensare che il motivo per cui gli uomini hanno deciso di abbandonare le mogli è perché tutte le femmine sono emotive, lunatiche e pigre?

E’ da femministe ritenere che il motivo per cui le donne sono state lasciate dai mariti è perché tutti questi maschi sono vigliacchi, fifoni e infingardi?

Qual è la verità quindi?

Scherzavo, non c’è né una verità né una morale. Non sono mica una la cui professione termina in Oga, io. E poi il web e le riviste femminili sono pieni di verità assolute sui rapporti uomo-donna: fatevi un giro su internet, è tutto un gli uomini vengono da Marte le donne da Venere. Cosa ho da aggiungere che non sia già stato detto da Selvaggia Lucarelli?

Niente, tutto il post è una scusa per farmi sentire meno in colpa d’aver sprecato tre ore della mia vita con la visione di Matrimonio a prima vista Italia.

P.S: Alla fine i documentari di Sky Arte li ho guardati davvero; però ho guardato anche Mtv Super Shore (no, non vi farò un finto post anche per questo, lo prometto).

P.S1: Il mio prossimo post sarà su un argomento serissimo perché vi giuro che non scrivo solo di cose frivole.

P.S2: Ovviamente non è una marchetta per Sky Online, anzi, magari lo fosse.

P.S3: Ciao Ceo di Sky Italia, se mi leggi sappi che io vvb.

 

Per favore basta con ‘sti cani

Ieri il mio Hermes ha compiuto un anno.

Hermes è un cane.

Spesso sono più interessata ad Hermes che alle persone.

Sì Bergoglio, c’hai ragione, non dovrei.

Riflettevo ieri, mentre cercavo disperatamente di tener fermo il mio boxer di 32 kg davanti la sua torta (con tanto di candelina) di compleanno che Papa Francesco forse non ha proprio tutti i torti.

“Cosa sono diventata?” mi sono chiesta mentre intonavamo allegramente l’happybirthdaytoyou al cane.

“Sono forse rimbecillita?” mi sono domandata mentre scattavo l’ennesima foto ad Hermes.

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(La candelina alla fine si è consumata e non sono riuscita nemmeno ad ottenere una foto decente)

La risposta alle due domande è “Sì, cara, ti sei rimbecillita perché i cani o i gatti fanno esattamente questo: ti rendono scemo agli occhi del mondo”.

Forte di questa consapevolezza ho deciso di stilare una lista delle cose più irritanti che noi proprietari d’animali domestici facciamo, le azioni che irritano la gente (ah, esseri insensibili che non amano i nostri pelosi) di cui ci dovremmo vergognare e che potremmo benissimamente evitare per rispetto verso gli altri (ma soprattutto per il nostro benessere mentale):

1)Evitate di spammare foto del vostro animale su ogni maledettissimo social.

-Intasate il vostro cellulare ma non la mia home di Facebook-

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(Su Instagram e Facebook ho in proporzione più foto del mio cane che di parenti o amici)

Ogni padrone di un animale non resiste: deve fotografare il tenero musetto del suo cane o gatto e poi condividerlo su tutti i social network esistenti.

Orbene, io vi dico BASTA.

Fotografateli pure quanto vi pare, ma tenetevi le immagini di Bobby che fa la ninna nelle gallerie del telefono e non c’ammorbate  postandone una al giorno. Una foto di quando il cucciolo è appena arrivato a casa è ok, ma sinceramente intasare l’internet di foto della sua prima cuccia, della sua prima pappa, della sua prima pipì e della sua prima cacca, anche no. Il mondo social ne può fare a meno.

Ok, sono like assicurati, come darvi torto? Ma basta fare come con tutte le altre cose della vita: non strafate perché alle lunghe seccherebbe anche San Francesco vedere in home solo foto del vostro cucciolo. Soprattutto, per carità, basta selfie con i baci (e questo ci  riporta direttamente al prossimo punto):

2)Non baciatelo mai in pubblico.

-Se ci pensate in effetti fa un po’ schifo-

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(Quando sei struccata ma hai la necessità impellente di un selfie: voilà, il faccione del tuo cane, un bacio e lo scempio del tuo viso ‘acqua, sapone e rughe’ scompare)

Pensateci: con cosa si fa il bidè il vostro animale?

Riflettete: quando lo avete portato in giro per la passeggiata, dove ha infilato il suo adorabile musetto?

Ecco, voi state baciando tutto questo.

Non aggiungerò altro. Fatevi due domande quando, la prossima volta che bacerete il vostro amato animale, la gente vi guarderà disgustata.

3)Mai pronunciare la terribile frase: “E’ buono, al massimo abbaia per paura”.

-Ragazzi, è un cane: è buono, sì, ma è un animale imprevedibile. Poi oh, se siete così ricchi da pagare ogni causa che vi faranno in caso d’aggressione, buon per voi-

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(Buono ma soprattutto  rassicurante)

Dire che il vostro cane è buonissimo, dolcissimo, per niente aggressivo, vi porterà sfiga: v’avviso. Appena avrete finito di vantarvi della sua santità lui diventerà un demone inferocito e si comporterà come non si è mai comportato prima, ringhiando, abbaiando e -se siete proprio sfortunati- sbranando tutto ciò che gli capita a tiro.

Specialmente se avete uno di quei cani piccoli e isterici, vi prego, ve lo chiedo come un favore personale…teneteli a bada, legati e possibilmente lontani almeno un km da me.

Grazie.

4)Per carità, non fatelo salire sul vostro letto.

-O almeno non dite mai a nessuno che dormite con lui-

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(“Come glielo dico che deve scendere?”)

Davvero c’è bisogno che vi spieghi questo punto? Tornate su al punto 2 e aggiungeteci LE ZAMPE (voi dormireste mai con le scarpe nel letto?).

Ok, se siete dei punkabbestia incalliti (in tal caso vi voglio bene) e per voi riuscire a non prendere l’epatite è una sfida quotidiana, allora dormite pure con quell’ammasso di batteri che è il vostro pulcioso.

5)Fatevene una ragione: il vostro cane non è eccezionale.

-Tutti, se addestrati, rispondono agli ordini-

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(Tutti tranne il mio, ovviamente)

“Seeeeeduto”

“Zaaaaaampa”

“Teeeeerra”

Complimenti, il tuo cane può competere con Einstein su chi ha il quoziente intellettivo più alto.

Ovviamente non credo a nessuno dei 5 consigli che ho scritto, soprattutto rinnego l’ultimo perché, come declamava un vecchio aforisma (che non ho ritrovato e cito a memoria): tutti i padroni di cani pensano di avere il cane migliore al mondo e tutti hanno ragione. 

La comicità è -a volte- donna

Non sono una di quelle persone che ride facilmente guardando un comedy show, anzi: non sono una che ride facilmente e basta, la frase poteva terminare così.

Avete presente ‘i simpatici mi stanno antipatici, i comici mi rendono triste’ di De Gregori?

Ecco, più o meno è l’aforisma su cui si basa la mia intera esistenza.

Ho sempre storto il naso difronte gli sketch comici, rabbrividisco dallo schifo con i siparietti esilaranti che fanno sbellicare tutti e in generale, tutto ciò che gli altri trovano spassoso mi mette molto a disagio perché no ragazzi, di sicuro a me non farà ridere.

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Eppure mai dire mai nella vita, mi sono follemente innamorata di un’attrice comica (e della sua serie televisiva): Amy Schumer.

E fin qui nulla di strano, mi verrà detto: in fondo i comici servono a far sorridere e sì, non c’è mica niente di così bizzarro nel farsi piacere una serie tv divertente.

No, belli miei, è una cosa strana perché Inside Amy Schumer ha tutte le carte in regola per essere la serie tivvù più odiata dalla sottoscritta.

Invece.

Inside Amy Schumer è una serie made in Usa, in produzione dal 2013 e arrivata alla quarta stagione (trasmessa proprio in questi giorni su Comedy Center). Ideatrice ed interprete della serie è, appunto, la Schumer: una trentenne bionda senza peli sulla lingua, vincitrice di ben due Emmy Award e candidata come migliore attrice ai Golden Globe.

La serie tv è un format nuovo ed inedito, o almeno lo è per noi provincialissimi italiani poco abituati alle stand up comedy: Inside Amy infatti unisce, nei 20 minuti di durata della puntata, diversi generi di comicità. Nel singolo episodio s’intrecciano sketch, pezzi di stand-up comedy, interviste da strada e conversazioni più lunghe (spesso con con personaggi insoliti). Ma più che il format a risultare atipico, è la stessa Amy che rende tutto eccezionale (per farvi un’idea di che personaggio è, vi consiglio di guardare l’intervista rilasciata al David Letterman Show): una delle poche comiche donne che riescono a far ridere davvero, prendendo in giro sé stesse, il mondo femminile e quello maschile in egual misura.

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Niente di nuovo sotto al sole, dite?

Bhé, no. Non è mica una Geppy Cucciari qualsiasi, Amy è diversa dal tipo di comicità femminile a cui siamo abituati.

Parla di sesso dal punto di vista femminile come tante, sì, probabilmente è anche volgare, ma non lo fa come una ‘femminista qualsiasi‘ perché, signore&signori, lei non odia gli uomini (hey, femministe all’ascolto, non accusatemi di qualunquismo perché il blog è mio, le opinioni pure e ci scrivo tutte le banalità che voglio). Anzi. Alla Schumer gli uomini piacciono e non ha paura di sbandierarlo ai quattro venti. Certo, spesso inciampa in esseri maschili a dir poco bizzarri, ne estremizza ed esaspera le caratteristiche ma riesce a non uscire mai dai margini del vero umorismo. Ha una comicità che riesce ad accontentare tutti, persino me che detesto le scenette demenziali e paradossali (ho abbandonato l’ultima stagione di New Girl perché è diventata troppo assurda per i miei gusti, ad esempio). E, udite udite: la Schumer non rosica perché le altre donne sono più belle, più magre o più intelligenti di lei  (e se rosica, rosica bene perché non trapela la sua invidia) e non le ghettizza ma le rende partecipi dei suoi sketch.

Però non è solo il sesso ad essere sdoganato e trattato con leggerezza, ironia e sarcasmo, anche altri temi scottanti come anoressia, cancro e politica vengono inscenati nei siparietti comici, esasperati nei suoi monologhi e drammatizzati nelle interviste: perciò se siete intransigenti moralisti magari vi sconsiglio la visione anche di un singolo sketch, ma se siete amanti del genere non spoilererò nulla e ci scommetto che l’amerete come l’amo io.

Chi l’ha detto che una donna non fa ridere e dovrebbe prendersi troppo o troppo poco sul serio?

Lunga vita a quelle come Amy Schumer e un po’ meno a quelle quattro poracce italiane (e se non v’è piaciuto il sarcasmo dell’ultima frase no, non siete affatto adatti alla visione di Inside Amy).

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Non tutti gli influencer vengono per nuocere

Sono giorni che imperversa la polemica sugli influencer. O meglio, sono parecchi anni che si criticano queste nuove figure nate dal web ma prima dell’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano.it  forse nessuno (tranne i singoli haters)  li aveva messi così alla gogna pubblicamente.

Chi sono questi benedetti influencer? Devono davvero trovarsi un lavoro perché la loro è un’attività che, a lungo termine, non porterà a nulla?

Andiamo con ordine: in sintesi e in parole povere vengono definiti influencers coloro che hanno un largo seguito su diversi social network e quindi riescono ad “influenzare” considerevoli fette di utenti/consumatori pubblicando recensioni di servizi/prodotti  su blog o altri social, semplicemente ringraziando il brand e condividendo foto,  tweet, post o video. Sono perciò trendsetter virtuali quindi blogger, twitstar, instagramers o youtubers contattati spesso da aziende piccole, medie e grandi per sponsorizzare i propri prodotti. Il tornaconto è positivo da entrambe le parti: gli influencer guadagnano il prodotto da pubblicizzare (e spesso anche soldi) e l’azienda ne trae come profitto una pubblicità economica ma che si espande ugualmente su vasta scala.

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Il punto su cui si basa tutta l’accusa è: bisogna disilludere questi giovani perché un lavoro vero non ce l’hanno, perché la vita non è fatta solo di selfie allo specchio e di markette su mascara e fondotinta.

Ora.

Siamo proprio sicuri che sia così e che questi tanto osannati/criticati influencer devono andare necessariamente a trovarsi un lavoro da McDonald’s perché prima o poi svanirà il loro potere?

Mi pare un discorso senza senso o meglio, una tesi che potrebbe reggersi in un’altra era, non nella nostra. Solo un troglodita potrebbe credere ad una cosa del genere.

Quanti dei cosiddetti operai digitali allora, dovrebbero inviare il proprio curriculum vitae da Mc Donald’s? Quanti social media specialist, social media manager, social mediachipiùnehapiùnemetta, dovrebbero rassegnarsi e suicidarsi entro domani mattina?

Suvvia.

Facciamo i seri e smettiamola di rosicare o di vivere con i paraocchi.

Il mondo è di chi è più furbo, di chi ci sa stare, di chi è al passo con i tempi, di chi riesce a vendere la miglior immagine di sé stesso al miglior offerente. Anche e soprattutto saper vendere fumo è un talento: quindi sì, gli influencer sono ragazzi più talentuosi di chi -come me- ha 200 followers su Twitter o Instagram.

Per un breve periodo ho lavorato per una start up come project manager e il creatore di questa fuffa (perché sì, era tutta una farsa) era decisamente ossessionato dai social media, dai followers, dalle condivisioni, dai like. Com’è giusto che sia, eh, per carità. Ovviamente lui mi disprezzava perché non ero al passo coi tempi e io detestavo lui perché pensavo che fosse tutta una gran perdita di tempo: non avevo voglia di sprecare nemmeno un secondo per procacciarmi like, ero troppo occupata a vivere. Non ricordo cosa facessi, ma qualcosa la facevo. Insomma non m’affannavo a trovare seguaci, non mi disperavo se le mie foto non venivano apprezzate: io avevo una vita vera.

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E qui siamo al nodo cruciale della questione: oggi condurre un’esistenza reale non serve più. Se la tua foto profilo non supera -almeno- i 100 like non esisti davvero; se non ti geolocalizzi in un posto non ci sei stato sul serio; se non hai dai 1000 followers in su allora non hai amici veri; se non instagrammi il pranzo puoi dire di averlo mangiato davvero?

La colpa di tutto questo è degli influencer?

No.

Gli influencer sono semplicemente più inseriti di noi altri e hanno il lavoro giusto per il mondo in cui viviamo.

Certo, alcuni di loro sono davvero ridicoli, non lo metto in dubbio.

Ho visto youtubers 30enni disegnarsi le lentiggini sulla faccia perché ‘fa figo avere le efelidi‘ , o pubblicizzare cinesate cancerogene, oppure vloggare un’inutile giornata tra cerette e nail art. Però guardiamo in faccia la realtà, in verità i seguaci di questi influencer, o meglio chi si fa realmente influenzare da questi personaggi, sono soprattutto adolescenti (a meno che voi, a 30 anni o più, non compriate il libro di una 18enne youtuber e allora, insomma, fatevele dù domande). E chi è senza peccato scagli la prima pietra: noi adolescenti dei primi anni 2000 non ci siamo fatti influenzare da personaggi opinabili come i Vj di Mtv o le Spice Girl? I canali di diffusione dei messaggi erano diversi, certo, ma il risultato non mi sembra sia stato tanto differente. Anche noi avevamo i capelli colorati o le zeppe alla Geri Halliwell, anche noi abbiamo pensato che, seppure senza un vero talento, saremmo potuti diventare ugualmente qualcuno.

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Quindi basta colpevolizzare troppo questi nuovi trendsetter: sono figli del loro tempo come noi lo siamo stati del nostro.

E comunque scusatemi se nel pezzo non c’è alcuna testimonianza d’influencer, ma nessuna di queste grandi stelle di internet si è degnata di rilasciare una micro intervista a me, che ho troppi pochi followers per i loro -giusti- gusti.

 

 

Tre posti tra i più instagrammabili di Roma

Guida semiseria per scattare foto social della Capitale

 

Tenetevi forte perché sto per svelarvi una cosa segretissima, che nessuno mai vi ha rivelato prima, qualcosa che cambierà per sempre le vostre esistenze: raga, Roma non ha solo il Colosseo, Fontana di Trevi e l’Altare della Patria o altri luoghi affollati da turisti.

Ebbene sì, so che è difficile da accettare ma è così.

E ve lo dico non perché sono così altruista da voler condividere con voi queste chicche, ma solo perché sono stanca di vedere il vostro profilo Instagram, ogni volta che passate per la Capitale, intasato da foto banali a San Pietro.

Siamo nel 2016, baby: davvero credi che c’interessi vedere er Cupolone fotografato con il tuo Iphone 6? Cosa credi, che non abbiamo Google?

Ma mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa ho da confessare un fatto increscioso. Sono stata una di voi (o forse pure peggio visto che usavo il filtro Nashville) e il mio profilo, fino al mese scorso, oltre ad avere foto non modificate con VSCO (ah, quanto me ne vergogno) era persino privato. E per privato intendo bloccato, segreto, riservato a una selezionatissima cerchia di conoscenti. Un profilo senza uno straccio di tag. Quindi no, non posso darvi consigli su come far crescere cuori e followers perché sono ancora alle prime armi (lo stesso vale per il blog e per Twitter: sto diventando social solo ora). Adesso sto puntando alla perfetta armonia cromatica e di dimensione delle foto, ma ammetto che è più difficile di quanto pensassi.

Da oggi in poi scriverò un post settimanale ed elencherò tre posti da instagrammare (se v’avanza tempo anche da visitare) per fingere d’essere esperti conoscitori della città eterna e veri radical chic. Sì, tre per ogni post: l’ho scritto che non sono altruista, cosa v’aspettavate? Che li svelassi tutti in una sola volta? Pff. Illusi.

Mi gioco come prima carta uno dei quartieri a cui sono più affezionata: Flaminio.

Tranquilli, non vi consiglierò d’andare a fotografare Ponte Milvio o Piazza del Popolo, ho superato gli spensierati 20 anni e ne sono uscita viva e ripulita.

 

FOTO INSTAGRAM NUMBER ONE: Ponte della Musica-Armando Trovajoli

Partiamo da qui:

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E’ stato realizzato dallo studio Buro Happold di Londra e inaugurato nel 2011; ha un enorme potenziale e sicuramente diventerà un grande classico tra le foto rappresentative della Roma moderna.

Potrete ammirarlo (sempre se v’avanza tempo, eh) ma soprattutto fotografarlo da ogni posizione e ad ogni ora sia del giorno che della notte, con il sole o con le nubi: state tranquilli, verrà bene comunque e farete una figurona da grandi esperti di architettura. Aumentate il contrasto e via, rendete drammatico l’effetto di questo ponte di design contemporaneo, costruito da acciaio, cemento e legno (ve lo dico: con il vento la struttura traballa un po’, ma non spaventatevi troppo, sopravviverete).

P.S: Potreste raggiungere il livello ph Instagram Pro fotografando gli skaters sotto al Ponte, ma dovreste essere davvero bravi e, soprattutto, tanto giovani da non essere spaventati dalla fanciullezza di questi adolescenti con le ruote sotto i piedi. Io, per esempio, non li ho mai fotografati perché la loro giovinezza mi fa rosicare tantissimo.

 

FOTO INSTAGRAM NUMBER TWO: museo MAXXI

Partendo dal Ponte della Musica e tirando sempre dritto (nella direzione del palazzo crollato sul Lungotevere Flaminio, per intenderci) v’imbatterete nel super moderno museo Maxxi:

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Progettato dal compianto architetto Zaha Hadid (di cui farete, ovviamente, finta di conoscere tutte le opere) potrete ammirarne la bellezza dall’esterno e fotografarlo dal basso preferibilmente di mattina (soprattutto perché alle 19.00 di solito chiude). Se vi va di culo ci sarà anche una bella installazione d’arte contemporanea e allora potrete anche risparmiarvi il prezzo del biglietto e fingere d’apprezzare mostre che non capirete né oggi né mai. Certo, all’interno del museo avreste potuto fotografare il paesaggio da quella finestra, ma pensateci bene prima di spendere quei 15 euro: avete già due foto esterne, bastano ed avanzano.

Qui mi raccomando con l’inquadratura eh: dal basso, sì, ma fate entrare nel riquadro anche un pezzo di cielo e il riflesso nella vetrata.

P.S: vi viene voglia di scattare un selfie all’ingresso, tra le scritte ed i vetri? Va bene: l’importante è che siate vestiti da hipster, con un bel cappottino ad uovo o un giubbotto di jeans e di sicuro un cappello. Se non avete nessuno di questi accessori, rinunciate. E tornateci almeno con una bandana.

 FOTO INSTAGRAM NUMBER THREE: Auditorium Parco della Musica

Il giro fotografico (e finto culturale) termina qui, in bellezza, con l’Auditorium Parco della Musica. Spero che vi siano rimaste ancora un po’ d’energia e di concentrazione, perché qui la foto dovete sudarvela.

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Ebbene sì, non è mica facile fotografare questo enorme scarabeo progettato da Renzo Piano (mi raccomando, vale la stessa cosa che ho suggerito per Zaha Hadid) soprattutto perché sarete indecisi su molte cose.’Quale edificio fotografare? Scatto la foto all’anfiteatro? Metto la fotocamera in modalità panoramica? Salgo sulle scale e ne fotografo il profilo?’

Fate un po’ come ve pare, io sono pigra e ho sempre fotografato le lastre di piombo solo di fronte (tranne una volta in cui sono stata costretta a salire le scale e raggiungere il parchetto sovrastante, però ho portato il risultato a casa: una bellissima foto con me centrata in mezzo alla scalinata). Naturalmente potrete anche rimanere per un concerto (uno qualsiasi, uno a caso) ma solo se sarà nella Sala Santa Cecilia perché le altre, insomma, non è che siano proprio così instagrammabili.

P.S: Per rifocillarsi dopo questo tour fotografico, suggerisco di brindate con una bella birrozza alla radicalchichittà dell’ambiente che vi circonda. Dirigetevi al chioschetto dell’ingresso in Auditorium (ovviamente dopo che avrete finto di dare un’occhiata all’enorme libreria affianco alle sale). Gli altri due bar sono troppo mainstream per gente like us.

 

Stay Ironic

Stay Radical.

 

 

Perché Lo chiamavano Jeeg Robot è piaciuto a tutti

Alzi la mano chi non ha ancora sentito parlare o letto cose meravigliose su ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, specialmente dopo le 16 nomination ai David di Donatello (e soprattutto le 7 statuette portate a casa). Un successo talmente conclamato da ritornare nelle sale cinematografiche da domani, 21 Aprile.

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Ma perché il film è diventato un caso nazionale, acclamato da pubblico e critica? (Sì, questa è una di quelle frasi super inflazionate e probabilmente tra le più irritanti da leggere).

Il motivo è semplice: Lo chiamavano Jeeg Robot è un film nuovo per il mercato italiano, abituato al neorealismo ispirato al grande Federico Fellini (vi dice niente Paolo Sorrentino?), o alla commedia banale stile ‘Perfetti Sconosciuti’ (ma davvero ha vinto il David come miglior film?), o addirittura al trash dei cinepanettoni alla De Sica o Zalone (però io non sono una di quei radical chic arrabbiati e ammetterò: a me Checco fa ridere).

Il film narra le gesta di un signor nessuno, tal Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) che vive di piccoli furti, ingurgitando dalla mattina alla sera budino e film porno anni ’80, ma che un giorno, cadendo nel biondo Tevere, viene investito da superpoteri. Nella periferia romana di Tor Bella Monaca regna però lo Zingaro (interpretato magistralmente da Luca Marinelli), un personaggio dalle mille sfaccettature: è a capo di una gang del quartiere, appassionato cantante dei classici anni ’80, ex figurante in Buona Domenica, spietato assassino dall’anima fragile. Le due vite s’intrecciano e si scontrano, incrociando nel cammino anche una terza figura: la giovane problematica Alessia interpretata da Ilenia Pastorelli (non ci dormo la notte al pensiero che una così brava abbia partecipato al Grande Fratello), con evidenti problemi mentali tra cui un’ossessione per il cartone animato Jeeg Robot d’acciaio. Sullo sfondo delle loro vite una Roma spaventata e minacciata dal terrorismo ed un mondo influenzato e dipendente dai social network.

 

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(Link per gustare Un’emozione da poco interpretata da Lo Zingaro)

E’ innegabile: lo chiamavano Jeeg robot è un film innovativo, fresco, a tratti geniale, un cinecomic alla Marvel in versione italiana, capace di unire il genere fantastico dei manga giapponesi a quello neorealistico dell’ambientazione in borgata.

Questo lungometraggio è un genere nuovo solo per il mercato italiano, però.

Il film punta tutto sul protagonista antieroe che, per quanto ben costruito, ben scritto, ben recitato, ha ben poco d’innovativo per il mercato internazionale.

Basti pensare al mercato cinematografico americano (e non solo, lo stesso vale per quello televisivo e alle relative serie): non è una novità che il protagonista sia un eroe insolito ed anticonvenzionale, che vive ai margini della società  come un reietto, un essere spregevole da tenere alla larga e che non si sognerebbe mai (almeno inizialmente) d’usare i suoi poteri per aiutare il prossimo. Alcuni esempi? Deadpool o l’intera squadra di Suicide Squad, sono prototipi perfetti di antihero.

Però di sicuro il regista Gabriele Mainetti, classe 1976, è stato il primo in Italia a portare sul grande schermo un film del genere, proponendo un lungometraggio che mischia la provincialità nel racconto della borgata romana all’internazionalità degli effetti speciali. Quindi la chiave del successo di Lo chiamavano Jeeg Robot è tutta qui: è un film che vola alto, che non ha paura di sfidare i colossal americani, ma rimane ancorato alle sue radici italiane.

Eppure  Mainetti, non è nuovo alla realizzazione di qualcosa di bello: il suo corto Basette, prodotto nel 2008, è una chicca, un vero e proprio gioiellino e avrebbe già dovuto farci intendere che il giovane regista di strada ne avrebbe fatta.

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(Link per gustare il cortometraggio: Basette di Gabriele Mainetti)

Quindi evviva i ccciovani, grande festa alla Corte d’Italia: per favore andate a dire a quei quattro dinosauri delle produzioni cinematografiche che il cinema italiano non è ancora morto e sì, si può e si deve investire nelle nuove leve.